Di Massimiliano Borgia
Antonella Ramassotto, psicoterapeuta, psicanalista del centro Teco di Torino, sarà ospite nella serata di giovedì 27 ottobre dedicata al nostro rapporto con il corpo e ai disturbi alimentari.
Dottoressa Ramassotto nella sua esperienza di psicanalista e psicoterapeuta come stanno cambiando i disturbi alimentari?
«I sintomi hanno sempre una parte invariabile che è la struttura, la logica che li sostiene, e una parte variabile che risponde al discorso dell’epoca in cui si presentano. In questo i disturbi alimentari non fanno eccezione. Ne è un esempio l’obesità, che si sta diffondendo nei paesi capitalisti con numeri tali, e patologie correlate così severe, da mettere in seria difficoltà i servizi sanitari. L’obesità ci mette di fronte al punto di degenerazione dell’ideale di pienezza della società dei consumi. D’altro canto, se un corpo obeso denuncia la condizione di disagio di chi lo abita, oggi assistiamo al diffondersi di fenomeni più subdoli, ma altrettanto indicativi. È il caso dell’ortoressia, che si impegna a purificare il cibo da ogni implicazione che esuli dal suo mero valore nutrizionale. Il cibo non è altro che il veicolo di sostanze nutritive misurabili, e opportunamente miscelabili, necessarie a mantenere il corpo in perfetta forma ed efficienza. Corpi statuari e disabitati. Tra la devastazione dell’abuso e la regola intransigente dell’omologazione, oggi incontriamo sempre nuovi modi di accostarsi al cibo, che si intrecciano con la patologia nella misura in cui tradiscono un privilegio dato all’oggetto a scapito del soggetto. Del soggetto che ciascuno di noi è, e di quelli a cui potrebbe andare incontro. Per questo il primo segnale d’allarme, in questi casi, non riguarda tanto il piano alimentare, quanto piuttosto il cambiamento delle abitudini sociali e relazionali».
Quali sono le ragioni profonde che portano ai disturbi alimentari?
«Mi è accaduto spesso di ascoltare pazienti che si lamentano del fatto che nel caso dei disturbi alimentari la guarigione assume confini sfumati, difficili da individuare, da definire. L’alcolismo, la tossicodipendenza possono contare sull’astinenza, la dipendenza da cibo no. Non si può smettere di mangiare. È una questione di vita o di morte. In questa prospettiva possiamo considerare i disturbi alimentari come la Madre di tutte le dipendenze. Il cibo è il primo oggetto che passa in quel corpo a corpo tra una madre e il suo bambino in cui è in gioco non soltanto la sua vita fisica, ma il senso che acquisirà di sé, l’idea della propria amabilità, del suo valore per l’Altro. È in un momento di dipendenza assoluta che si gettano le basi dell’autonomia. Per questo M. Montanari diceva che, anche nella più assoluta solitudine, non si può mangiare da soli. Perché la nostra tavola è imbandita dalla nostra cultura, da tradizioni familiari, da dettami religiosi. C’è sempre dell’Altro in ciò che mangiamo. I disturbi alimentari parlano di un Altro con cui è difficile misurarsi, perché ha fatto prevalere l’offerta di oggetti all’offerta di sé. In questi casi lo sforzo di emancipazione può prendere la via autarchica dell’anoressia, per non incontrare altro che la dipendenza dal rifiuto. L’autonomia, al contrario, non si nutre di rifiuto, ma di differenza. Si nutre della possibilità di fare qualcosa di proprio con ciò che si è ricevuto dall’Altro».
Si parla spesso anche di ragioni esistenziali… sul cibo si riversano mancanza di punti di riferimento, di sogni, speranze, valori. O c’è dell’altro?
«Nel suo discorso a Stanford Steve Jobs rivolse un solo augurio ai neolaureati: “Siate affamati”. Nel momento della loro massima soddisfazione c’è un richiamo potente al desiderio, al valore propulsivo della mancanza. Un richiamo controcorrente se si pensa che l’imperativo sociale oggi è piuttosto il contrario: “Godete”. Eppure l’uomo è l’unico essere vivente che non si accontenta di soddisfare le sue necessità, né gli basta godere della vita. Ha bisogno di dare un senso alla vita. L’epoca contemporanea assiste all’affievolirsi di ideali capaci di articolare conquista e desiderio in un processo dinamico, e cerca compensazione nell’identità statica che il soggetto trae dal suo rapporto all’oggetto. Espressioni quali “Sono un’anoressica; sono una bulimica”, offrono un tornaconto d’identità che ritroviamo in tutte le dipendenze. È un fenomeno caratteristico del fatto che la questione esistenziale dell’essere, del “Chi sono?”, è messa in cortocircuito da una pratica. Da un fare che pietrifica e al tempo stesso condanna a una ripetitività che non apre al saper fare.
Voi sostenete che la “passione” sia al centro dei disturbi alimentari…
«La passione è assolutamente centrale perché i disturbi alimentari sono modi di manifestarsi di un disturbo della relazione, e le relazioni fanno sempre patire. Non è un caso che le prime manifestazioni di un rapporto problematico al cibo compaiano spesso in adolescenza, quando l’incontro con l’altro sesso accende il desiderio nella sua duplice portata di enigma. Che si tratti del desiderio di cui si è fatti oggetto, o di quello che invade il corpo e lo sottrae a un’ideale padronanza, in ogni caso il desiderio si sottrae alla presa con una forza che il cibo ha il potere di disinnescare. A questo livello infatti la passione per il cibo, per quanto virulenta, si incanala sul doppio binario della prevedibilità. Un binario morto. Per un verso infatti si rivolge a un oggetto inanimato, disponibile e misurabile, che tiene al riparo dal capriccio dell’Altro. Per altro verso il cibo diventa lo strumento necessario a sostenersi su un’immagine di sé che trova nell’ideale condiviso del corpo magro un punto di ancoraggio».