Di Massimiliano Borgia
Davide Sisto è un “filosofo tanatologo“, cioè un filosofo specializzato nell’indagine sul nostro rapporto con la morte. È uno dei relatori dell’ultima serata di Pensare il Cibo, giovedì 26 ottobre, dedicata alla longevità e il cibo. Ricercatore in filosofia teoretica all’Università di Torino, insegna in giro per l’Italia “death education” e si occupa di “digital death”, cioè della gestione della morte e l’elaborazione del lutto nell’era dei social media.
Giovedì 26 ottobre si parlerà di mito dell’eterna giovinezza che passa soprattutto attraverso le proposte di nutraceutica e di cibi miracolosi.
Uno dei miti della contemporaneità è proprio quello dell’eterna giovinezza, della morte allontanata come un orrore: ma è un buon modo di intendere la vita pensare di allontanare il confronto con la morte?
«Durante le ultime elezioni presidenziali negli Usa – ricorda Sisto – ha destato una certa curiosità il candidato Zoltan Istvan, il quale ha attraversato il paese con un bus a forma di bara (l’Immortality Bus!), promettendo la sconfitta della morte e la vita eterna ai suoi eventuali elettori. Questo tipo di promessa si inserisce oggi all’interno di uno spazio pubblico in cui si è sempre più convinti che l’invecchiamento non sia un processo naturale ma una patologia che può essere curata dalla scienza (il caso più noto è il programma “Anti-Ageing” di Aubrey de Grey) e che la morte, il peggiore tra tutti i mali, debba essere vinta dall’uomo. C’è questa idea, quasi cinematografica, dell’uomo-Rambo che ci libererà eroicamente dalla senescenza e, soprattutto, dalla mortalità. Prevale l’uomo perfetto, l’uomo che non deve chiedere mai, per citare un vecchio slogan pubblicitario. Si tratta di un uomo automatico, che crede che tutto funzioni sempre secondo il modello di causa-effetto, che tutto sia aderente a un principio razionale, principio che respinge e ripudia ogni situazione in grado di limitare la corsa forsennata verso la perfezione assoluta. L’uomo che non deve chiedere mai non può ammalarsi, invecchiare, morire».
Naturalmente è solo un’illusione ma perché ci piace tanto illuderci che non moriremo mai?
«A mio modo di vedere, questo approccio alla senescenza e alla morte, oltre a essere profondamente utopico, è molto dannoso perché non ci fa riconoscere la “sana normalità” della fragilità che deriva dal limite che definisce la nostra esistenza. Perfetta è di per sé una vita che riconosce l’importanza della debolezza e il valore dell’errore. Daniel Pennac, nel romanzo “Storia di un corpo”, scrive che «la natura ha orrore della simmetria […] non commette mai un simile errore di stile. Ti stupirebbe vedere com’è inespressivo un viso simmetrico, se ne incontrassi uno!». L’espressività e l’asimmetria sono il segno del nostro modo precario di stare al mondo, una precarietà mortale che non è una debolezza; piuttosto, una fondamentale e preziosa risorsa. Vivere in modo sano, secondo me, significa confrontarsi con la morte e, dunque, con la mortalità che definisce la nostra esistenza».
Come ricetta del perfetto vivere, è meglio pensare a noi stessi come eterni giovani o pensarci collocati nella precisa fase di vita che stiamo attraversando (adulti, anziani…)?
«Non penso vi sia una regola oggettiva che valga per tutti. Credo che ognuno debba cercare, innanzitutto, di stare bene con se stesso e quindi rapportarsi alla sua età anagrafica in vista di questo obiettivo, che è personale e indipendente da ciò che pensano gli altri. Ciò che conta è comprendere che il proprio benessere psicofisico deve armonizzarsi con quello che è il naturale percorso di ogni forma di vita, segnata da una nascita, una crescita e una sua fine. Quindi, si può pensare a se stessi come giovani, a livello mentale e fisico, senza essere ossessionati da una giovinezza innaturale: un sessantenne in salute può mantenersi giovanile, esercitando la propria mente e tenendo tonico il proprio fisico, senza l’ossessione di avere il proprio corpo simile a quello di un ventenne. Anche perché è il “contenuto” a farci percepire giovani o vecchi dagli altri, non certo il “contenitore”».
Allora si può conciliare l’idea di vita con l’inevitabilità della morte?
«Assolutamente. Anzi, non c’è idea di vita senza l’inevitabilità della morte, non c’è identità soggettiva senza mortalità. Vita e morte sono integrate l’una nell’altra: il modo di concepire la vita e il modo di concepire la morte sono solo due aspetti di un atteggiamento unitario. La morte non è quell’evento o processo che ha luogo a partire dall’istante in cui la vita termina, tenuto anche conto che questo termine trascende le possibilità di comprensione da parte dell’uomo; ci sono piuttosto gradi processuali di vita che, nel garantire il continuum tra il vivere e il morire, ci rendono consapevoli che la nostra esistenza è stratificata, che – fin dalla nascita – siamo condannati a essere solo vitali, come sostiene Georges Canguilhem. Ed essere condannati alla “sola vitalità” vuol dire che siamo organismi che muoiono mentre vivono. A pensarci, può sembrare una cosa terribile, ma viceversa esserne pienamente consapevoli è una grande opportunità: in quella “sola vitalità” possiamo imparare a riporre tutto ciò che per noi conta veramente, imparare a mettere da parte tutte quelle preoccupazioni, quelle ansie, quei fastidi che, poi, di fatto scopriamo non essere così importanti. La consapevolezza che ci sarà una “fine” può essere l’occasione per fare in modo che tutto ciò che precede quella fine corrisponda, il più possibile, a ciò che ci fa star bene».
Quindi, vita e morte non sono necessariamente concetti antitetici…
«In fondo, come dice lo psichiatra Eugéne Minkowski, nella vita la morte corrisponde alla discesa del sipario, una volta finito lo spettacolo teatrale. Senza la discesa del sipario, non saremmo mai in grado di capire il senso delle scene che abbiamo fino a quel momento visto; senza la morte, invece, non è possibile che si formi la nozione di una vita. Tale nozione riunisce in una sola unità sintetica tutto ciò che ha preceduto questa morte: se lo sappiamo prima, cerchiamo di fare in modo che tutto ciò che precede tale morte sia il più possibile aderente a ciò che ci piace».
Perché proprio nel cibo (antiage) riponiamo molta della nostra rimozione della morte?
«Perché ci affidiamo totalmente alla nostra razionalità, quindi al principio oggettivo che un determinato effetto segua necessariamente una determinata causa. Bombardati quotidianamente da ricerche scientifiche che ci dicono che il cibo X fa venire la malattia Y e che il cibo Z invece la malattia K, ci convinciamo che la sconfitta della morte passi attraverso un’oculata alimentazione. Questo è anche incrementato dalla diffusione, sempre più capillare, del cosiddetto junk food, i cui effetti nocivi sono davanti agli occhi di tutti. Poi, però, rimaniamo confusi quando si diffondono studi – come quello della Johns Hopkins University, pubblicato un paio di anni fa dalla prestigiosa rivista Science– che evidenziano quanto incidano il caso e la sfortuna nello sviluppo delle malattie tumorali (ne ho parlato nel blog “Si può dire morte”, che curo insieme a Marina Sozzi: qui. Ora, una sana alimentazione, così come ogni altra forma di prevenzione, è assolutamente fondamentale e necessaria per garantire il proprio benessere psicofisico. Andrebbe, tuttavia, seguita non per raggiungere obiettivi utopici e fantascientifici (non invecchiare), ma per vivere e invecchiare nel miglior modo possibile, consapevoli che ci si può comunque ammalare e si può comunque morire anzitempo, al di là di ogni tentativo di razionalizzazione dell’esistenza».
Quale contributo può dare il cibo consapevole, conviviale, che soddisfa, alla migliore vita della terza età?
«Il contributo dato da una sana alimentazione, non eccessiva e in grado di tenere insieme il proprio piacere per la buona cucina e la propria salute, sia fondamentale per una migliore vita psicofisica nel corso della terza età. Bisogna evitare gli eccessi, quindi sia un’alimentazione sregolata sia certe forme assurde di restrizione dietetica calorica, i cui effetti sono entrambi nocivi. Siamo mortali, siamo destinati a morire ma possiamo, al tempo stesso, vivere il tempo che ci è concesso nel miglior modo possibile, cercando, per quello che possiamo, di seguire stili di vita razionali ed equilibrati, eliminando le fobie e le ossessioni e accettando noi stessi per quello che siamo, con le nostre debolezze, imperfezioni e fragilità. Ignorando i modelli superficiali imposti dalla società dell’immagine».